Raccontare la propria esperienza, condividerla, non è impresa semplice. “Mi farà bene – mi assicura Ilaria -. E poi mi sto rendendo conto di quanto si sta diffondendo la sua sindrome. Parlarne significa anche aiutare quelle famiglie che arrivano a capire il problema con ritardo. Invece è importante per il recupero intervenire tempestivamente”.
Mentre Ilaria inizia a raccontare è un fiume in piena.
“Leonardo aveva pochi mesi di vita. E già c’erano i primi campanelli d’allarme. Erano piccole cose, niente di particolarmente evidente ma se mi soffermo e ripenso, tanti piccoli tasselli trovano la loro giusta collocazione. Erano evidenti alcuni elementi caratteristici del suo disturbo, quello più doloroso era il fatto che sembrava non essere molto attaccato a noi genitori. I bambini già da piccoli instaurano un rapporto unico soprattutto con la mamma, hanno uno sguardo di complicità di unione che lui non aveva, la mia presenza per lui non era importante. Mi sentivo inadeguata come madre. Non ero in grado di consolare il suo pianto non sapevo farlo addormentare tra le mie braccia. Non mi sentivo Madre. Era molto frustrante”.
A un certo punto, quindi, Ilaria e Riccardo decidono di intervenire, di rivolgersi a degli specialisti.
“Quando Leonardo aveva 15 mesi abbiamo prenotato la visita dalla Neuropsichiatra e qualche mese dopo è arrivata la diagnosi: Disturbo generalizzato dello sviluppo non altrimenti specificato”.
Ilaria è lucida nel raccontare. Ma ripercorrere un vissuto così forte è sempre doloroso. Si vivono certe scene all’infinito. “A quella prima visita – continua -, ne seguirono altre sei. Ripetevo sempre le stesse cose come se stessi recitando un rosario con la stessa monotona interpretazione impersonale. Non avevo avuto alcun problema in gravidanza, avevo partorito in maniera spontanea. E in ogni visita mi sentivo pugnalata da quelle domande: Suo figlio la guarda negli occhi? Fa ciao con la manina? Se passa un aereo indica con il dito? Rispondevo sempre no”.
Quando la neuropsichiatra disse “senza giri di parole” che il bambino si muoveva nello spettro autistico per un attimo, come nel migliore slow motion cinematografico, tutto nella vita di Ilaria e Riccardo assunse contorni sfocati, colori imprecisi. Ma allo stesso tempo, come ricorda la mamma di Leo, “fu la quadratura del cerchio: la spiegazione di tutti quegli atteggiamenti ripetitivi e delle sue rigidità. Dunque non ero esagerata e i suoi non erano capricci di un bambino viziato. Quando entrammo in quello studio eravamo due giovani genitori poco più che trentenni che avevano tanti sogni, tanti progetti. Quando uscimmo, dopo quella impietosa diagnosi, ci siamo visti portati via tutto”.
Seguì un po’ di silenzio. Sono ricordi vividi quelli di Ilaria. Lei e Riccardo si conoscevano da una vita. Erano fidanzati dai tempi del liceo. In quegli istanti, in cui si sentirono estranei l’un l’altro, rimasero immobili e con la sensazione comune che niente sarebbe stato più come prima. “Sapevo che la nostra vita sarebbe cambiata, ho pianto. E ho pianto tutte le volte che tornavo da una visita e la sentenza era sempre la stessa “disturbo dello spettro autistico”.
Ma le donne, si sa, lottano come guerriere per il bene dei loro figli. E anche Ilaria dopo un attimo di smarrimento non si è lasciata prendere dalla disperazione. “Mi avevano detto che se si interviene quando i bimbi sono ancora piccoli si possono ottenere ottimi risultati. E non avevamo tempo per disperarci, per sgretolarci e lasciarci andare. Ci siamo attivati per avere altri pareri e nello stesso tempo
Leonardo ha iniziato la logopedia”. La terapia è stato il primo passo per entrare nel mondo di Leonardo: “Abbiamo imparato a rapportarci con il suo problema, abbiamo capito come dovevamo stimolarlo per tirarlo fuori da quella bolla che lo avvolgeva e lo rendeva irraggiungibile”.
Ilaria ha lasciato un lavoro che amava, ha interrotto l’università e si è dedicata esclusivamente al suo bimbo. “Mi sono documentata, trascorrevo le sere su internet ad informarmi sull’Autismo, ho scritto ad altre mamme con figli con lo stesso disturbo per capire perché ero confusa.
Che voleva dire essere nello spettro autistico senza essere Autistico? Significava toccare alcuni aspetti dell’autismo come gravi alterazioni della comunicazione verbale e non verbale, carenza di interesse e di reciprocità relazionale con gli altri, immaginazione limitata o un repertorio di interessi limitato. Non mi sono fermata mai: ho fatto domande, chiesto spiegazioni sempre più esaurienti, ho letto libri e ascoltato moltissime testimonianze. E la mia vita è ancora così, sono sempre alla ricerca di nuove tecniche, nuove terapie. Adesso per esempio Leonardo sta praticando l’Ippoterapia e la terapia multisistemica in acqua.
Non mi fermo, non mi posso fermare perché in questi due anni appena trascorsi mio figlio ha fatto tanti progressi importanti. Ha iniziato a guardarci negli occhi a lasciarsi coccolare, adesso è sempre alla ricerca di baci e abbracci, è un bambino solare giocoso curioso e con la voglia di imparare di riuscire a farcela da solo. Ha iniziato a capire i sentimenti a parlare e a relazionarsi con gli altri bambini.
Ha ancora tanta strada da fare per colmare il gap che lo separa dai suoi coetanei tant’è che i suoi compagni di classe lo preservano dicendo che è più piccolo e loro lo devono aiutare”.
Nella voce di Ilaria c’è l’amore e la grinta che solo una mamma può trasmettere. Non è una vita facile. Ma il segreto, la chiave di lettura di un percorso così tortuoso e tutto in salita è non scoraggiarsi. “Proprio quando ti sembra di non farcela e di voler mollare lui ti sorprende con qualcosa che non ti aspettavi. La mia forza si chiama LEONARDO. Se ho accettato il suo problema? A questa domanda non so risponderti. E ti spiego perché. Due volte a settimana mi reco alla Usl per la terapia e leggo la sigla TSMREE (Tutela Salute Mentale e Riabilitazione in Età Evolutiva). Ogni volta è sempre un dolore che si rinnova. E sai -, conclude Ilaria con gli occhi lucidi -, quello che mi fa soffrire non è tanto il dispiacere per i sogni negati, quanto la paura del suo futuro. Mi chiedo spesso che ragazzo e che adulto sarà. Mi chiedo se saprà difendersi dalla “vita”. E’ questo il mio grande dolore, non la sua diversità”.
di Alessia Acanfora
Ho 32 anni e sono una giornalista ma soprattutto la mamma di un principe e di una principessa.
Amo leggere, dipingere e fare fotografie. Amo il calcio e la maglia numero dieci indossata da Roberto Baggio. I Beatles fanno da colonna sonora alla mia vita. Bart è il cane che mi fa compagnia da 12 anni. Papà Incredibile è l'uomo che amo.
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