di Merchedes Mas Solè
La mia difficile esperienza di madre adottiva mi ha portato a riflettere sul tema dell’infertilità e soprattutto su quanto questo porta con sè. Ho vissuto personalmente l’ansia che si nasconde dietro all’attesa di un figlio che non arriva (nel mio caso il secondo), quanta paura, quanta angoscia, quante cose... Ho capito che se il Tribunale dei Minori mi avesse rifiutato l’idoneità (cosa che adesso penso avrebbe forse dovuto fare) io avrei mosso mari e monti, avrei lottato come una leonessa, affermando che il tribunale non aveva idea, che erano incompetenti, che io avevo già una figlia biologica e sapevo perfettamente essere madre... E in questi miei atteggiamenti riconosco il processo e l’ossessione di tante coppie (sempre più numerose in occidente) che persone e poche istituzioni aiutano a elaborare il possibile lutto del non poter procreare, a parte il proporre soluzioni sempre più sofisticate e estenuanti per dar risposta a questo desiderio/necessità, cosa che non affronta il problema ma che lo evita. Sono assolutamente d’accordo con il criterio (nel caso dell’adozione) che pone come fine prioritario quello di dare una famiglia a un bambino e non il contrario: dare un figlio a una coppia. Ma in questo momento vorrei condividere con voi la mia riflessione sulla coppia ferita nella sua fecondità.
DIO, PERCHE’ NON POSSO AVERE UN FIGLIO?
“Il Signore mi ha impedido di procreare: dormi con la mia schiava, forse da lei potremo avere figli... ” (Genesis 16,1-3)
Una delle crisi più drammatiche della storia della limitazione umana è quella legata al non avere uno specchio nel quale rispecchiarsi: un figlio. Non avere figli è una forma di trasgressione della legge divina “cresci e moltiplicati”. In oriente la donna che non generava figli era considerata un ramo secco perchè non poteva dare al marito la continuità del nome, non gli assicurava l’immortalità assegnata alla sequenza dei figli che continuavano la memoria del padre. Sara e Abramo, coscienti e tristi per la loro sterilità di coppia, si dispongono a poner in pratica il primo “tentativo di fecondazione assistita” della storia, senza tener in conto il progetto di Dio. Sono un esempio del dolore e dell’oscurità che vive la coppia infeconda. L’infertilità è un’esperienza difficile e frustrante che porta a volte anche a dubitare della bontà di Dio, che è un padre buono coi suoi figli. Se per Dio nulla è impossibile, si chiedono molti, com’è possibile che lasci in piena sofferenza e oscurità tante coppie che per anni sperano di poter essere feconde, senza che succeda nulla? Se i figli sono la benedizione di Dio, come dicono le distinte religioni, che colpa ha la coppia che non riesce a generarli? E quando la fede non è sufficiente per affrontare questa ferita, aumentano le frustrazioni e il senso di impotenza contro un destino che si considera ingiusto. Si tenta quindi di sfidare il limite ricorrendo alla scienza e alla medicina. Ma il cammino non è facile, in nessun senso, e nella Chiesa non si trova una grande consolazione, nè l’appoggio per affrontarlo. “Perchè la dottrina della Chiesta ancora oggi riesce a far sentire in grave colpa la donna che ha deciso coscientemente, sulla sua pelle, di affrontare la scelta più difficile? E perchè ci etichetta, a noi aspiranti madri in vitro, come amorali? Forse perchè chi si vede spinta dalle circostanze della vita a imboccare altri cammini, è meno degna e meno amata da Dio di chi ha figli in modo naturale?” (Patricia)
LA RISPOSTA MEDICA E L’ADOZIONE
La medicina come prospettiva tecnico-scientifica esalta la conoscenza razionale dei sintomi e delle cause, dimenticando continuamente gli aspetti soggettivi e sociali del problema. Nel caso dell’infertilità, come in molte altre situazioni, si ha bisogno di un focus olistico (globale), che comprenda gli aspetti psicologici ed emotivi del paziente: dubbi, paura, frustrazione per gli insuccessi ripetuti, accettazione di uno scopo... Molti medici e centri di procreazione medica assistita riconoscono che il 15% delle cause di infertilità sono psicologiche. Quando un uomo o una donna ricevono una diagnosi di infertilità, o peggio di sterilità, comincia un processo di riconoscimento del limite biologico che li esclude dal progetto “umano” e li fa sentire diversi. Ci si rivolge alla medicina per risolvere un problema, ma durante il processo diagnostico e terapeutico la coppia si rende conto dell’invasione della scienza nella sfera più intima della propria relazione, quella della procreazione. Davanti alle difficoltà oggettive dei trattamenti contro l’infertilità (difficoltà economiche, stress, salute…), molte coppie optano per l’adozione, che è una risposta che li fa sentire persone migliori. L’adozione, in occidente e in questo momento storico, gode di un’immagine idilliaca come atto altruista da parte della famiglia che accoglie. Per fortuna le condizioni per poter adottare sono sempre più serie e permettono ai futuri possibili genitori di farsi un’idea reale di cos’è l’adozione, con tutte le sue difficoltà. Non è facile aiutare la coppia a decifrare le vere motivazioni per le quali vuole adottare: sia l’oblazione totale che l’egoismo sono motivi pericolosi per un’accoglienza corretta, che sia proficua tanto per il figlio che per i genitori.
LA COPPIA GENERA UN FIGLIO O IL FIGLIO GENERA LA COPPIA?
“Credo che un figlio faccia sentire più stabile una coppia, le dia solidità... ci manca un figlio... non mi sento totalmente donna.” (Marta)
Nei casi di infertilità la frustrazione del desiderio sembra impossessarsi della vita completa dei coniugi, dando vita ad atteggiamenti diversi negli uomini e nelle donne. In genere gli uomini tendono a fissare delle mete lavorative per rivalutare la loro autostima ferita. Le donne, invece, spesso abbandonano gli interessi esterni alla famiglia, incapaci di sostituire il desiderio frustrato di maternità. Il figlio diventa sempre più un componente fondamentale dell’affermazione e realizzazione personale. Gli si chiede di essere frutto ed elemento fondatore della coppia. E’ come se il figlio “generasse” la coppia, dal momento che senza l’elemento procreativo questa non sembra ancora incontrare un senso. Capita sempre più spesso, oggi, che non sia sufficiente desiderare un figlio per poterlo avere. Esistono aspetti incoscienti quando la donna o la coppia non riesce ad accettare e vivere la maternità/paternità. Desiderare un figlio significa una rappresentazione emotiva, psicologica e affettiva di sè, in quanto essere generante disposto ad accettare un “altro” se stesso, straniero e familiare allo stesso tempo. Non tutti riescono. Essere madre/padre significa passare dall’altro lato dello “specchio”, essere la persona che porta il bambino concepito prima nella testa e adesso nel corpo. La coppia, in assenza del figlio, può percepire la propria vita come drammatica e insoddisfacente. La colpevolezza del coniuge sterile può essere uno dei motivi di conflitto che a volte deve affrontare la coppia. Il figlio è chiamato a cimentare la relazione, indispensabile per sentirsi uniti nella missione procreatrice. Se è garanzia della coesione della coppia, senza di lui la relazione potrebbe disfarsi. Ecco dunque che il bambino, già prima di nascere, ha una missione nel mondo, un ruolo: fondare la coppia e contribuire alla realizzazione personale dei genitori. Quanto è importante avere un figlio per strutturare la vita della coppia e per la propria sopravvivenza? Quanto la sua assenza la rende fragile, bisognosa di stampelle? E’ la coppia che genere il figlio o il figlio che genera la coppia? L’attesa può essere un’occasione di riflessione e conoscenza, per occuparsi di se stesso e della coppia. Aspettare dà la possibilita’ di guardarsi in faccia tra coniugi, di darsi la mano per sostenersi reciprocamente, di camminare insieme vivendo il presente. L’attesa può essere il momento di chiedere un aiuto esterno per porsi domande sulle proprie capacità, desideri e progetti… e per accettare quello che si è e i propri limiti personali e di coppia...
LA DIFFICOLTA’ DI ACCETTARE IL LIMITE
“Per me la sterilità è l’incapacità di fare qualcosa che moltissime persone fanno normalmente. Ci si sente inutili, falliti… Se manca un bambino è come se mancasse qualcosa dentro. E’ come un attacco alla mia identità, al mio essere come persona” (Ester).
Non è facile accettare la propria sterilità personale o di coppia: si comincia a pensare di non essere degni, di non meritare la maternità/paternità. L’attesa del figlio che non arriva, esperienza che può durare mesi, anni, può essere una storia angosciante e sorprendente, rivelando al contempo aspetti insospettati di se stessi, a volte fecondi. Ci sono donne che si sorprendono dei sentimenti di invidia, gelosia e odio, addirittura verso il bambino che non arriva, verso sorelle, amiche, cognate... che facilmente annunciano gravidanze, curiosamente non cercate! Il timore della sterilità può mettere in crisi la percezione del senso e del valore dell’essere femminile e della famiglia. Può nascondere sofferenze e dolori psicologici perchè non si riesce a concepire un orizzonte senza un figlio. Nessuno riesce a riempire questo desiderio-necessità, e niente deve interporsi verso questa meta. A volte ciò scatena un’ossessione e una ricerca ansiosa di varie strategie sempre più rischiose e invasive (soprattutto per la donna). Il dolore per la mancanza di un figlio a volte è anche un dolore del corpo, che è diventato dis-capacitato, in-valido, in-abile... e lo dimostra con disfunzioni fisiche. Cefalee, tachicardie, gastriti, fibromi, cisti ovariche, vaginismo e addirittura la “gravidanza isterica”... possono avere origini psicosomatiche. Secondo la psicologia psicosomatica, l’apparato riproduttivo ha la funzione di vincere l’archetipo della morte. Vincere la morte significa che l’uomo e la donna adulti capaci di generare sollecitano al figlio la parte di progetto di immortalità che loro non possono realizzare autonomamente. Questo corpo, percepito ora come sterile, cerca di recuperare la sua capacità attraverso strumenti scientifici.
Inoltre ci sono fasi nella vita di una donna durante le quali la sofferenza per l’assenza della maternità è più acuta: la frustrazione sul lavoro, nei rapporti, nella coppia... contribuiscono ad amplificare le energie emotive investite nel generare un figlio. Il figlio evoca un lutto annunciato per la mancanza di fecondità sociale e della vita interna.
APPROFITTARE DELL’OCCASIONE PER CRESCERE
“Forse l’esperienza dell’assenza di un figlio mi ha fatto passare dall’adolescenza alla maturità i miei 34 anni. Sì, perchè indipendentemente dall’avere un lavoro soddisfacente, un marito stupendo, una bella casa… ho vissuto i primi anni di matrimonio un po’ sulle nuvole, certa del nostro futuro radioso come lo avevo sempre sognato. Ero sicura che la felicità era a un passo, mancava solo un figlio, a coronamento di tante opzioni sensate e responsabili, e motivo ultimo che credevo della mia vita. Questo sogno, questa grande aspettativa spezzata, mi ha convertita in uno di questi adulti frustrati che da giovane mi dava tantissima rabbia, perchè li vedevo ingiustamente insoddisfatti di fronte a tanti doni ricevuti o conquistati, dal punto di vista sociale, professionale e affettivo. Non consideravo gli scherzi del destino, il fatto di non poter controllare tutti i progetti della mia vita...“ (Maria).
I conflitti possono essere un’occasione di crescita personale e collettiva. Ma solo se accettiamo di metterci in gioco, se riusciamo a superare la paura. E’ possibile approfittare dell’occasione come individuo e come coppia per uscirne rinforzati. Forse per decidere di smettere di camminare insieme, in ogni caso per elaborare, senza nasconderci, quello che ci fa male, che temiamo e che ci angoscia.
IMPARARE A CHIEDERE AIUTO, AD ACCETTARE DI FARSI AIUTARE
In generale ci riesce più facile offrire aiuto che accettarlo. Ma ci risulta ancora più difficile chiederlo. Nell’infertilità, quando la ricerca diventa ossessiva, si finisce per provare di tutto: ormoni, procreazione assistita, adozione, psicoterapia, agopuntura, shiatsu, yoga, reiki... Di tutto, tranne chiedere aiuto per elaborare il lutto e cercare altri modi di essere fertile. Riuscire a prender coscienza del problema per poterlo riorientare verso una fertilità più ampia (come tutto quello che la donna o la coppia sanno creare, dare alla società), aiuta molti a riconciliarsi con una parte di loro stessi che pensavano di aver perso. Nei corsi prematrimoniali della mia parrocchia insistiamo moltissimo su questo aspetto, su come la fecondità si può esprimere attraverso l’accoglienza, la condivisione, l’apertura, la compassione, il volontariato... L’accoglienza temporanea di bambini, ad esempio, è sempre una soluzione a cui le coppie non danno valore, perchè la realtà è che si vuole un figlio “di proprietà”. Chiedere aiuto per fare questo salto costa molto, ma trovarlo aiuta a sbloccare e a dar fertilità a più di una famiglia allo stesso tempo.
“Ieri ho chiesto durante l’Eucarestia della mia parrocchia, nel giorno della Vita e della Famiglia: ricordiamoci delle coppie che aspirano ad essere genitori, quelle che aspettano la cicogna della provetta, quelle che
aspettano il tribunale dei minori, quelle che rinunciano.” (Isabel)
Alcune citazioni sono tratte dal libro di Cristiana D’Orsi “Sara, Elisabetta e le altre... "La femminilità ferita tra desiderio e limite della maternità” Edizioni Psiconline