Ho picchiato mio figlio

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Iniziamo la Rassegna Liberi di non picchiare con la toccante testimonianza di una mamma che ha picchiato suo figlio un giorno di qualche anno fa e di come questo gesto abbia scatenato in lei sensi di colpa ma anche riflessioni su se stessa, sulla sua infanzia, sul genitore che desidera essere.

Ho picchiato mio figlio. Questa cosa grave e orribile è successa anni fa la mattina di un 28 ottobre, quando lui aveva poco più di quattro anni. Il tempo ha continuato a scorrere, sono passati i giorni, i mesi. Le mie mani sono tornate alcune volte ad aggredirlo: gli ho stretto i polsi, gli ho dato una spinta, l’ho allontanato da me. Ho alzato la voce, sono stata sgarbata, mi sono mostrata infastidita… Da allora so che occorre che io presti sempre attenzione, che anche oggi che per lo più rimango tranquilla e paziente di fronte a certi suoi comportamenti di bambino che altre volte mi hanno messo alla prova, anche oggi, devo vigilare su me stessa. La stanchezza, un senso di solitudine, l’affanno delle troppe cose da fare di certi giorni, le preoccupazioni della vita, tante sono le ragioni che possono lasciarmi sguarnita di fronte alla violenza di quell'impulso. Ogni tanto sbaglio, non mi piaccio. Chiedo scusa, riparto, mi impegno a fare il meglio di cui sono capace. E per riuscirci mi ostino a cercare di capire che cosa è accaduto quel giorno, che cosa può succederci ancora.

Ero stanca, tesa, negli ultimi mesi avevo probabilmente preteso da me più di quanto avrei dovuto. L’estate era stata difficile, avevo cominciato ad ammalarmi: troppo stress, niente difese. Cominciavo appena a riprendermi. Tanti problemi di tutti i tipi che aspettavano soluzione e per il momento non la trovavano. Non sto cercando scusanti, solo di mettere insieme le cose. Tanti sentimenti ed emozioni aggrovigliati che mi pesavano dentro.

Quando è successo ho deciso che non potevo lasciarmi trascinare dal dolore per quello che era accaduto. Ho cercato di farne il prima possibile un’analisi accurata per cercare di dominarlo e riuscire ad offrire un po’ di schietta serenità in tempi brevi ai miei bambini. Ci ho sentito dentro, oltre alla vergogna e alla colpa, alla delusione di me, la sofferenza bruciante di sapere che cosa Fabio avesse provato l’istante dopo, quando mi guardava incredulo e terrorizzato. Quell'attimo immobile mi resterà nel cuore per sempre. Io so come ci si sente a essere guardati con rabbia, a essere toccati con violenza, a patire il male del colpo che ti arriva addosso, so lo sconcerto, la paura. E io ho fatto in modo che mio figlio provasse tutto questo! Mi sarebbe piaciuto allora e mi piacerebbe oggi pensare che non sarà mai più, ma da quel giorno so che invece devo vivere col pensiero che, siccome è successo, può risuccedere in ogni momento. E ne provo a tratti ancora paura e sgomento.

Quel giovedì ero sfinita moralmente, tiravo a sopravvivere la mattina. Fabio a casa dall’asilo. Enrico lamentoso per un po' di mal di pancia. Fabio fa una scena contro Enrico e lo fa piangere. Io ci resto male, sono dispiaciuta che Enrico sia spaventato, che Fabio sia stanco e reagisca così. In un istante, di punto in bianco, mi sono ritrovata furibonda contro di lui a spingerlo verso il bagno perché si era fatto la pipì addosso (gli avevo fatto paura). E in bagno la mia mano è partita senza controllo. Non mi è neppure passato il pensiero di metterci i laccetti mentali che adopravo di solito. Un istante più lungo di un'ora. Il mio bisogno di essere quella cosa mostruosa piena di furia, la sensazione dei miei occhi cattivi, della voce alterata. Un misto di orrore e compiacimento. È stato come se il fantasma di mio padre, quello di mia nonna mi fossero calati addosso. Mi sono sentita invasata da una sorta di spettro malefico liberato dalla sua trappola. E tra le mie mani, sotto il mio sguardo c'era un povero bimbo innocente terrorizzato. Una sola lacrima sotto l'occhio destro, un distillato di dolore.

So che uso toni forti, ma so di che cosa sto parlando. Perché quello che ho fatto io HO VOLUTO farlo, l’ho desiderato prima di compierlo e poi l’ho messo in pratica. Non è stato un pur orribile gesto come l’istintiva pacca che gli avevo assestato sul pannolino anni prima (che tra l’altro per fortuna non aveva capito). Ho pensato un'infinità di volte a tutto quanto e vedo con orrore come sono andate le cose. Per questo sono qui, nonostante la vergogna, a raccontarle.

Fabio ha urlato furioso in faccia a Enrico che aveva preso in mano una sua carta da gioco. Enrico si è spaventato a morte e ha cominciato a piangere. Io ci sono rimasta male e ho cercato di far notare a Fabio che non era il modo, che Enrico si era preso paura. Fabio ha strappato di mano a Enrico la carta che ovviamente si è stropicciata. Fabio piagnucolando rabbioso ha cominciato a prendersela con Enrico. Un’ordinaria scena di conflitto tra fratelli.

Ma di qui parte tutto. Io urlo a Fabioo che è lui che ha stropicciato la carta pretendendo di strappargliela di mano. Fabio si spaventa e si fa la pipì addosso e mi dice piangendo: «ecco, mi hai fatto fare la pipì addosso». Io, furiosa, cattiva, gli ribatto che tanto se la sarebbe fatta lo stesso (erano giorni che si dimenticava di doverla fare a si bagnava le mutande: giorni tesi per tutti, si aspettava un evento che avrebbe deciso del nostro futuro) e comincio a spingerlo verso il bagno.

Ricordo che pensavo «adesso lo picchio, adesso lo picchio…». E la faccia di mio padre in un lampo, l’immagine della sua mano, del suo orribile anello. La faccia di mia nonna, le sue unghie appuntite. Entro in bagno, lo spoglio, sto per metterlo sul water ed ecco, ecco la mano che parte e lo colpisce. Lui è di spalle. Certo non stava bene: spintonato, stordito dalle mie urla, spogliato di malagrazia. Ma quello non se lo aspettava. Una mano sulla pelle nuda fa male, lo garantisco. Poi ho guardato quella povera pelle arrossata, al pensiero ho i brividi ancora. Ha urlato «ahiiii», si è voltato con gli occhi sbarrati, quella lacrima…

A quel punto ho visto un bivio di fronte a me. Potevo continuare così, fare peggio. Potevo fermarmi. L’impulso a proseguire era peggio di una vertigine. Davvero mi girava la testa. Enrico ci aveva seguito e stava arrivando. Spaventato. L’ho preso in braccio e ho cominciato a parlare. Fabio mi guarda quasi senza respirare. Gli spiego che quello che ho fatto non lo dovevo fare, che è una cosa sbagliata e ingiusta. Che mi sono arrabbiata perché Enrico si era spaventato, che non mi piace quando gli strappa le cose di mano, gliel’ho detto tante volte con gentilezza. Che io ogni giorno dico a Enrico di no un’infinità di volte per proteggere i suoi giochi, il suo spazio. Che Enrico ultimamente si vede chiudere le porte in faccia, si vede portare via da un’altra parte, che deve accettare tutto questo perché lui, Fabio, e le sue cose siano rispettate. Che ogni tanto ha diritto anche lui, Enrico, a chiedere qualcosa, di poter toccare, giocare insieme…

Ho sentito il bisogno di giustificarmi, di dare un senso a quello che avevo appena fatto, condividerne in un certo senso la responsabilità. In fondo era come dirgli: «se non facevi il prepotente, io non mi arrabbiavo e non arrivavo a picchiarti». Lo so, lo so, ma meglio quello in quel momento che non riuscire ad arginare la rabbia. E ci pensavo mentre parlavo, ma non riuscivo a far meglio. Poi mi sono rimessa a chiedergli scusa, ho messo giù Enrico e ho abbracciato Fabio. Lui si è calmato subito. Mentre gli chiedevo perdono mi ha abbracciata, l’ho sentito cedere alle mie braccia, accoccolarsi contro di me, ha avvicinato la testa al mio petto. Siamo rimasti così, è ripartito. Apparentemente come se nulla fosse (ma come può essere, mi chiedevo, che di qui in avanti nulla sia?).

Io li ho lasciati da soli e sono fuggita in un’altra stanza. Dentro la belva c’era pur sempre e ruggiva. Che orrore sentirlo il mostro che ti rode dentro! Piangevo, mi odiavo, vedevo gli occhi di Fabio. Gli occhi di Fabio che sono i miei occhi. Era come se mi fossi picchiata io stessa. I lampi della memoria ora illuminavano me piccina e le sensazioni, i sentimenti del dolore mi facevano piangere più forte. Ho cominciato a scriverne singhiozzando per riuscire a fermare, con l’esigenza di formulare un pensiero condivisibile, quella piena di emozioni: Fabio io io Fabio io…

Eppure si sopravvive. E si vuole riparare e far meglio, si vorrebbe poter dire «mai più». Subito ho capito che, per provare a riuscirci, dovevo tenermi stretto ogni grammo del dolore che avevo provato. Doveva essere a tal punto presente in me da lanciare l’allarme ben prima, da svegliare i miei sorveglianti intorpiditi. Il tempo scorre e anche questo sbiadisce, si allontana. Ci torno allora, tolgo la polvere, rinfresco i ricordi. Non voglio sensi di colpa, ma consapevolezza e attenzione sì. È stato terribile sentire la mia debolezza, il non potermi fidare di me. Neppure i miei bambini allora potevano farlo. E di chi altro avrebbero dovuto fidarsi? Avevo presunto troppo di me stessa.

La sera prima di quel giovedì avevo litigato con mio marito. Ricordo lo sgomento che me ne era rimasto. Lo sapevo da tempo che i miei momenti peggiori nascevano sempre da una situazione di conflitto con lui. Era una cosa che mi portava alla disperazione. Mi sentivo sola, non accettata, non amata, respinta, non capita. Sola, soprattutto sola. Per me era devastante: non avevo nessun altro. Tutta la vita a sentire che ero quello che nessuno voleva, sbagliata, da correggere, fastidiosa... Che vita è? E solo lui ha pensato che custodivo qualcosa di bello, che andavo protetta, accudita, amata. Quando eravamo in contrasto, era come se una parte di me temesse di non valere più niente perché non c’era più al mio fianco qualcuno che mi amasse per quello che sono. Avevo nel tempo imparato a non aspettarmi nulla dalla mia famiglia e a non dare peso al loro giudizio, ma mi faceva ugualmente male il vuoto che me ne restava. È un vuoto che almeno in parte ci sarà sempre. Un grande problema, lo so.

Dopo quel 28 ottobre io e mio marito abbiamo parlato molto e questo mi ha fatto del bene profondo. La cosa più importante e bella che lui mi ha detto mentre riflettevamo su che genitori riusciamo a essere, su che genitori vorremmo essere è stata:

«Noi Fabio ed Enrico non dobbiamo considerarli, trattarli come figli, noi dobbiamo considerarli degli esseri umani».

Non c'è verità più vera. Io quella mattina ho trattato Fabio come figlio, come una cosa mia e l'ho trattato come ho imparato a essere trattata io da figlia: qualcosa su cui ci si sfoga. A mio padre serviva una vittima e io lo sono stata. Io in genere non avevo trattato Fabio come figlio in questo senso e in genere l’ho rispettato, mi sono fidata di lui, l’ho amato per quello che è. Questo devo cercare di fare SEMPRE. Questo voglio fare.

E.

 

a cura di NonTogliermiIlSorriso.org

 

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Commenti  

mandarino
# mandarino 2012-11-14 13:14
ho le lacrime che mi rigano il volto. So benissimo come ti sei sentita perchè è la stessa identica sensazione che ho provato io nel momento esatto in cui mi sono resa conto che il mostro che avevo dentro si è impossessato di me e io l'ho lasciato fare. Il ricordo del suo piccolo viso spaventato, dei suoi occhi sbalorditi, della sua guancia rossa e gonfia, il segno della mia mano sul suo viso che amo alla follia... e il suo amore, lei che mi abbraccia piangendo e chiamando mamma quel mostro che l'ha appena picchiata... non si dimentica, rimane dentro... e ti fa pensare, ragionare, ti fa schifo, ti fa dire "mai più" ma il terrore che possa un giorno o l'altro perdere di nuovo il controllo non lo togli. Dal quel giorno i rapporti col mio compagno sono andati in rovina, voi siete cresciuti con quello, noi siamo finiti. Non ho trovato accoglienza nè conforto per la mia anima distrutta dal gesto che avevo compiuto, non volevo essere giustificata, mai, ma compresa e abbracciata, e accompagnata a capire il motivo del mio gesto. Ho dovuto farlo da sola, e continuo da sola, siamo sempre insieme, ma sono sola. Chissà, forse leggendo un'esperienza simile ed emozioni simili a quelle che ho vissuto potrebbe anche guardarmi con occhi diversi... proverò.
Grazie per la tua condivisione.
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Eleonora
# Eleonora 2012-11-15 01:53
Grazie, per aver parlato di questo. per aver osato raccontare un dolore che spacca in due. Perchè dopo che ho dato uno schiaffo a mio figlio, che l'ho spinto, gli ho urlato e finalmente, sono corsa via, ero di nuovo lei, quella bambina su cui arrivavano mani pesanti, cinghiate, rovesci di rabbia che pensavo di aver superato, di aver analizzato, perdonato, compreso.e invece no, non so dove, ma sono sempre stai lì, in attesa. ora lo so che ci sono, non mi illudo più, non cerco più di dirmi che è tutto passato.Ho fatto sentire anche lui così?indifeso, tradito, odiato, non visto e non riconosciuto come essere umano? respiro, cerco la consapevolezza che potrà portarmi oltre, la catena della violenza.Grazie per queste lacrime della buona notte. E.
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mersi
# mersi 2013-12-20 21:41
grazie...in questo momento non mi sono sentita sola....
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